ANCONA - Un altro, l'ennesimo, incidente sul lavoro che si porta via una giovane vita.
Che poi, in fondo, l'età non c'entra. Non è questo il problema, quanto il fatto
che, assurdamente, ancora oggi, in Italia, di lavoro si può morire. La tragica
scomparsa di Daniele Cappella, proprio all'indomani della sessantesima giornata
nazionale delle vittime del lavoro, allunga la serie quasi quotidiana dei
piccoli e deboli anelli di un'inaccettabile catena di morti bianche. Lo abbiamo
detto più volte, e siamo obbligati a ripeterlo: non è un paese civile quello che
guarda inerme questi lutti che colpiscono ogni anno migliaia di famiglie.
C'è chi dice fatalità, chi parla di errore umano, negligenza,
leggerezza. Nessuno che pronunci la parola responsabilità, questo vocabolo così
desueto e ingombrante in un'epoca che eleva a virtù cinismo, indifferenza e
opportunismo. Responsabilità, invece, è la chiave per uscire dall'inutile
retorica e conquistare uno spazio di impegno autentico dove affermare, senza
ambiguità e posizioni di circostanza, il valore paritetico della vita e del
lavoro, diritti non barattabili né subordinabili l'uno all'altro che tutti, le
istituzioni in primo luogo, hanno il dovere di garantire e tutelare. Quelle
stesse istituzioni che non possono né devono alzare la bandiera bianca della
resa, perché l'irrisolutezza dei problemi genera rassegnazione, proprio ciò che
non possiamo permettere. Ma come? Per esempio iniziando a denunciare la crescita
del numero di lavoratori costretti ad allungare il tempo di lavoro (quando c'è)
per integrare salari e stipendi inadeguati a una vita dignitosa, scoprendosi
così al rischio di infortuni e malattie.
Più sul concreto, in qualità di
rappresentanti delle comunità locali, si potrebbe avviare la costruzione di
sinergie con l'obiettivo di vedere realizzato, finalmente anche in Italia, un
vero impianto sanzionatorio per quelle aziende che violano le disposizioni
normative in tema di sicurezza. Qualcuno potrebbe dire che ciò già esiste nel
nostro paese. Sì, è vero, esiste, ma è l'emblema stesso del problema: massimo
otto mila euro (salvo casi gravissimi) di multa per chi mette a rischio la vita
dei propri dipendenti. Tanto vale la vita di un lavoratore, tanto costa la
pacificazione delle nostre coscienze.
Credo che proprio questa, per
quanto drammaticamente scontata, possa essere la base di un nuovo inizio:
ristabilire la giusta proporzione tra il valore della vita umana e quello del
mercato, incredibilmente e colpevolmente smarrita nel corso di un paio di
decenni.
Ancona, 12 ottobre 2010