Energia, il mito del deficit e l'arretratezza della rete distributiva

 
Energia eolica

Intervento dell'assessore all'Ambiente all'energia della Provincia di Ancona Marcello Mariani


ANCONA - Il dibattito sui temi dell'energia, reso attuale anche dal recente rilancio della discussione sulle presunte opportunità offerte dal nucleare, ha avuto in questi anni molta rilevanza in una regione come le Marche, dove l'approvazione di un Piano energetico ambientale fortemente connotato dall'incentivo delle fonti energetiche rinnovabili e dalla micro-co-generazione, ha suscitato, soprattutto sul versante imprenditoriale, prese di posizioni contrarie.

 
Materia del contendere l'allarme intorno al cosiddetto deficit energetico, ritenuto da più parti una concausa delle difficoltà attraversate dal modello di sviluppo locale e un freno alle aspettative di rilancio dello stesso. Una discussione assai poco accademica che, non di rado, ha suscitato un vero e proprio braccio di ferro tra istituzioni e parte del mondo dell'impresa intorno alla realizzazione di nuovi impianti (si veda, per la sola provincia di Ancona, il progetto di due nuove centrali turbogas alla raffineria Api di Falconara o quello più recente della società Edison a Corinaldo, o anche quello dei rigassificatori - ben 2, a letterale tiro di schioppo l'uno dall'altro, proposti da API Nova Energia e Gaz de France - di fronte alla costa della provincia di Ancona).
 
Ora, un interessante studio del Business integration partners, sembra fare chiarezza su questa querelle molto influenzata dalla sfera di interessi particolari e poco da una visione di sviluppo sostenibile del territorio. In buona sostanza, lo studio del Bip afferma in maniera inequivocabile che il problema italiano sul fronte dell'energia non risiede nella capacità di produzione (alla domanda di energia si è risposto con un incremento adeguato dell'offerta, considerata addirittura eccessiva dagli esperti, in termini di capacità installata e di produzione), bensì in una rete di distribuzione arretrata, viziata da scarsi investimenti e localizzazioni errate che aumentano incredibilmente il livello di dispersione.
 
La questione non è di poco conto, soprattutto se si considera che queste inefficienze vanno a incidere da un lato sui costi dell'energia per imprese e famiglie e dall'altro minano il potenziamento dello sviluppo delle fonti rinnovabili. Ma soprattutto, l'analisi del Bip sembra dire che il re è nudo, ovvero che senza una reale e rapida riqualificazione della rete distributiva, non ha senso parlare di nuova impiantistica finalizzata alla produzione.
 
D'altronde, i dati su produzione e impieghi di energia elettrica appaiono la tessera mancante del puzzle: Terna certifica come, a un 2008 in calo nei consumi, è seguito un 2009 che ha visto una regressione di ben il 6,7% (la maggiore dal 1945: congiuntura industriale negativa certo, ma anche attecchimento dei molti modelli del risparmio energetico). E per il dipartimento Energia del ministero dello sviluppo economico la maggior produzione di elettricità da fonti rinnovabili ha messo a segno nello scorso anno un incremento del 13% rispetto al 2008. Si è così passati da 58,16 TWh registrati a fine 2008 a circa 66 TWh stimati a fine 2009: un quinto del fabbisogno nazionale. Come dire che, già nel 2009 se fossero state semplicemente dimezzate le perdite della rete di distribuzione (oltre 20 TWh, dati GSE), l'autoproduzione nazionale sarebbe stata pienamente sufficiente a soddisfare tutte le necessità del Paese.
 
La metafora del secchio bucato è quanto mai calzante: perchè dobbiamo continuare a gettare acqua nel secchio (il fabbisogno elettrico) bruciando combustibili fossili ed emettendo polveri e CO2, invece di tapparne i buchi (le perdite di una rete di distribuzione obsoleta e con un tasso d'innovazione inferiore alla metà della media di quello europeo)?
Allora, se la capacità installata di produzione d'energia era già ieri bastante a coprire tutti i fabbisogni, e se come dichiarato da ministro Scajola nel 2009 si è raggiunto il 20% di energia prodotta da fonte rinnovabile (con impegno del ministro a favorire il traguardo del 25%), a che logica risponde la volontà di impiantare nuove centrali a fonte fossile invece di migliorare la rete distributiva e portarla in linea con la media europea?

Davanti a tutto ciò che si può eccepire in termine di sostenibilità ambientale e sanità pubblica, esiste una questione di natura economica: a quali utilizzi si pensa di destinare i surplus produttivi, considerata l'impossibilità di un'esportazione? E quanto costerà, in termini economici, al sistema-Paese, se tali scelte venissero attuate, il non rispetto del 3x20 e il pagamento delle sanzioni (sulle addirittura maggiori emissioni future di CO2) derivanti dalla violazione degli impegni comunitari assunti?
 
Dunque il re è nudo, ma quanti saranno disposti ad aprire gli occhi e misurarsi su una corrette gestione del tema energia attraverso la programmazione degli interventi davvero necessari a uno sviluppo sostenibile dei territori? E se posti di fronte alla capitolazione dell'interesse generale a favore dell'ingiustificata bulimia realizzativa di quello privato (socializzazione dei costi e privatizzazione dei profitti), a amministrati e amministratori quale prospettiva rimarrà, se non la strada della class action, quale strenua difesa del proprio territorio, della competitività e della salute?
 

Ancona, 14 gennaio 2010