ANCONA - Il dibattito sui temi dell'energia, reso attuale anche dal recente rilancio della discussione sulle presunte opportunità offerte dal nucleare, ha avuto in questi anni molta rilevanza in una regione come le Marche, dove l'approvazione di un Piano energetico ambientale fortemente connotato dall'incentivo delle fonti energetiche rinnovabili e dalla micro-co-generazione, ha suscitato, soprattutto sul versante imprenditoriale, prese di posizioni contrarie.
Materia del contendere l'allarme intorno al cosiddetto
deficit energetico, ritenuto da più parti una concausa delle difficoltà
attraversate dal modello di sviluppo locale e un freno alle aspettative di
rilancio dello stesso. Una discussione assai poco accademica che, non di rado,
ha suscitato un vero e proprio braccio di ferro tra istituzioni e parte del
mondo dell'impresa intorno alla realizzazione di nuovi impianti (si veda, per la
sola provincia di Ancona, il progetto di due nuove centrali turbogas alla
raffineria Api di Falconara o quello più recente della società Edison a
Corinaldo, o anche quello dei rigassificatori - ben 2, a letterale tiro di
schioppo l'uno dall'altro, proposti da API Nova Energia e Gaz de France - di
fronte alla costa della provincia di Ancona).
Ora, un interessante
studio del Business integration partners, sembra fare chiarezza su questa
querelle molto influenzata dalla sfera di interessi particolari e poco da una
visione di sviluppo sostenibile del territorio. In buona sostanza, lo studio del
Bip afferma in maniera inequivocabile che il problema italiano sul fronte
dell'energia non risiede nella capacità di produzione (alla domanda di energia
si è risposto con un incremento adeguato dell'offerta, considerata addirittura
eccessiva dagli esperti, in termini di capacità installata e di produzione),
bensì in una rete di distribuzione arretrata, viziata da scarsi investimenti e
localizzazioni errate che aumentano incredibilmente il livello di
dispersione.
La questione non è di poco conto, soprattutto se si
considera che queste inefficienze vanno a incidere da un lato sui costi
dell'energia per imprese e famiglie e dall'altro minano il potenziamento dello
sviluppo delle fonti rinnovabili. Ma soprattutto, l'analisi del Bip sembra dire
che il re è nudo, ovvero che senza una reale e rapida riqualificazione della
rete distributiva, non ha senso parlare di nuova impiantistica finalizzata alla
produzione.
D'altronde, i dati su produzione e impieghi di energia
elettrica appaiono la tessera mancante del puzzle: Terna certifica come, a un
2008 in calo nei consumi, è seguito un 2009 che ha visto una regressione di ben
il 6,7% (la maggiore dal 1945: congiuntura industriale negativa certo, ma anche
attecchimento dei molti modelli del risparmio energetico). E per il dipartimento
Energia del ministero dello sviluppo economico la maggior produzione di
elettricità da fonti rinnovabili ha messo a segno nello scorso anno un
incremento del 13% rispetto al 2008. Si è così passati da 58,16 TWh registrati a
fine 2008 a circa 66 TWh stimati a fine 2009: un quinto del fabbisogno
nazionale. Come dire che, già nel 2009 se fossero state semplicemente dimezzate
le perdite della rete di distribuzione (oltre 20 TWh, dati GSE),
l'autoproduzione nazionale sarebbe stata pienamente sufficiente a
soddisfare tutte le necessità del Paese.
La metafora del secchio bucato
è quanto mai calzante: perchè dobbiamo continuare a gettare acqua nel secchio
(il fabbisogno elettrico) bruciando combustibili fossili ed emettendo polveri e
CO2, invece di tapparne i buchi (le perdite di una rete di distribuzione
obsoleta e con un tasso d'innovazione inferiore alla metà della media di quello
europeo)?
Allora, se la capacità installata di produzione d'energia era già
ieri bastante a coprire tutti i fabbisogni, e se come dichiarato da ministro
Scajola nel 2009 si è raggiunto il 20% di energia prodotta da fonte rinnovabile
(con impegno del ministro a favorire il traguardo del 25%), a che logica
risponde la volontà di impiantare nuove centrali a fonte fossile invece di
migliorare la rete distributiva e portarla in linea con la media europea?
Davanti a tutto ciò che si può eccepire in termine di sostenibilità
ambientale e sanità pubblica, esiste una questione di natura economica: a quali
utilizzi si pensa di destinare i surplus produttivi, considerata l'impossibilità
di un'esportazione? E quanto costerà, in termini economici, al sistema-Paese, se
tali scelte venissero attuate, il non rispetto del 3x20 e il pagamento delle
sanzioni (sulle addirittura maggiori emissioni future di CO2) derivanti dalla
violazione degli impegni comunitari assunti?
Dunque il re è nudo, ma
quanti saranno disposti ad aprire gli occhi e misurarsi su una corrette gestione
del tema energia attraverso la programmazione degli interventi davvero necessari
a uno sviluppo sostenibile dei territori? E se posti di fronte alla
capitolazione dell'interesse generale a favore dell'ingiustificata bulimia
realizzativa di quello privato (socializzazione dei costi e privatizzazione dei
profitti), a amministrati e amministratori quale prospettiva rimarrà, se non la
strada della class action, quale strenua difesa del proprio territorio, della
competitività e della salute?
Ancona, 14 gennaio 2010