Non sappiamo ancora se la proposta di ripristino delle gabbie salariali sia
l'ennesima boutade leghista o se sia invece uno degli strumenti con il quale il
governo italiano intende affrontare gli effetti della crisi economica che,
secondo statistiche ufficiali, lungi dall'affievolirsi, prospetta per l'autunno
un periodo drammatico sul fronte dell'occupazione. Tuttavia, l'apertura di
questo dibattito e le modalità di discussione aiutano, se ce n'era bisogno, a
definire meglio la cultura politica che alberga nel governo e che questa
proposta traduce in maniera chiara e senza timor di fraintendimento. Ovvero, una
cultura oggettivamente chiusa, antisolidale e incline a favorire particolarismi
(o egosimi) di breve respiro anziché guardare all'orizzonte più ampio del bene
collettivo. Un po' come accaduto con la recente approvazione del pacchetto
sicurezza.
Anzi, verrebbe da dire che la proposta della reintroduzione
della gabbie salariali è la fisiologica conseguenza di quel provvedimento. Non
può sfuggire infatti lo stretto legame "culturale" tra i due provvedimenti dato
dalla volontà di scaricare i costi sociali della crisi sulle fasce popolari più
vulnerabili. Come a dire: non ci sono risorse per un vero welfare che
contribuisca a estendere e rafforzare le politiche di integrazione? Bene,
cacciamo gli immigrati. Non esistono fondi per sostenere il sistema produttivo?
Non c'è problema, introduciamo le gabbie salariali. Risposte inique e lesive di
diritti acquisiti, ma sufficientemente supportate da una buona dose di demagogia
e luoghi comuni che le aiutano a essere metabolizzate. Ma soprattutto risposte
non risolutive del problema.
Tralasciamo, si fa per dire, che le gabbie
salariali rappresentano già di per sé un'insopportabile disuguaglianza che, a
parità di lavoro, porta a percepire stipendi diversi sulla base del luogo dove
si svolge la propria attività. Non consideriamo, si fa sempre per dire, i dati
sulla ripresa dei flussi migratori interni da sud verso nord, che ci riportano
indietro di oltre mezzo secolo. Ma è possibile che a nessuno, dalle parti del
governo, interessi il fatto che una delle principali componenti della crisi in
Italia sia costituita proprio dalla restrizione della domanda procurata da una
questione salariale che colloca tra gli ultimi posti in Europa il livello del
reddito da lavoro dipendente degli italiani? Questo tema non mi sembra
all'ordine del giorno nell'agenda del governo, sensazione confermata proprio dal
rilancio delle gabbie salariali. A meno che altri siano gli obiettivi di questa
proposta, come ad esempio la volontà manifestata più volte in altre forme di
rimettere radicalmente in discussione l'assetto del contratto collettivo
nazionale di lavoro, con il più che concreto rischio di alimentare ancora di più
la disgregazione sociale. Un rischio che non possiamo permetterci, né a destra
né a sinistra.
Quando il ministro Brodolini, oltre quarant'anni fa, abolì
le gabbie salariali disse che nell'Italia di allora, di gabbie, ne esistevano
già troppe e che aveva pensato di iniziare a cancellarne qualcuna. Purtroppo
nell'Italia di oggi molte gabbie sono state nuovamente istituite, cerchiamo di
non accrescerne ancora il numero.
Ancona, 10 agosto 2009